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Silvio Bresesti è andato avanti!

Il Gruppo Alpini di S. Giacomo di Teglio con profondo dolore ha annunciato che è

“andato avanti”

il Reduce Alpino Silvio Bresesti, “penna bianca”, classe 1920

 

Alpino della 49^ del Tirano, reduce di Albania e di Russia,   è stato da sempre una delle “memorie” più lucide e commoventi della nostra Storia, testimonianza vivente di quei tragici avvenimenti partecipava con grande commozione alle cerimonie del Ricordo in particolare a quella che ogni 17 Gennaio, a S.Stefano, per espressa volontà dei Reduci che intendevano così assolvere ad un voto fatto durante la tragica ritirata, i Gruppi di Teglio dedicavano ai Caduti e dispersi di quelle tragiche campagne di guerra.

La sua testimonianza più bella, scarna, sintetica ma commovente è stata raccolta da Marino Amonini sul numero di dicembre ‘95 del nostro “Valtellina Alpina” e poi ripresa nel bel libro di Agnese Bresesti nel suo ormai storico “I nonni ricordano … momenti di guerra”.

I funerali si svolgeranno lunedì 24 ottobre alle ore 14.30 alla Chiesa di di S. Giacomo

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Ricordiamo Silvio con brani tratti dai suoi “RICORDI”  già pubblicati su Valtellina Alpina nel 1995

La cartolina rossa

Verso la fine del 1939 ricevetti la cartolina rossa; i primi di marzo dell’anno successivo partii per il distretto di Sondrio, quindi fui mandato prima a Tirano e poi a Glorenza, in Val Venosta, per un periodo di istruzione lungo un paio di mesi. Successivamente fui trasferito a Montestrutto in Val d’Aosta, dove venni aggregato alla 49° Compagnia del Btg. Tirano (5° Alpini), in attesa di ricevere l’ordine d’attacco contro i nemici francesi.(zona Monte Bianco)

Il Fronte Occidentale

I primi di giugno scoppiò il conflitto contro la Francia che fortunatamente durò pochi giorni poiché i francesi capitolarono contro gli alleati tedeschi.

A piedi tornammo fino a Fenis, in Val d’Aosta, dopo alcuni giorni ci trasferimmo a Mezzocorona (TN) da lì a Fai della Paganella (TN) dove restammo accampati per circa 20 giorni.

Nell’ambito delle “manovre della Gardena” arrivammo a S. Virgilio di Marebbe (BZ) dove ci fermammo per circa 40 giorni.

Fummo poi trasferiti a Prato dello Stelvio (BZ), dove alloggiammo nelle case finché il 10 novembre 1940 giunse l’ordine di partire per l’Albania in guerra contro la Grecia.

In treno arrivammo a Brindisi, da lì imbarcati per Durazzo, già colpita dai bombardamenti inglesi che centrarono depositi petroliferi levando altissime fiamme visibili già molti km prima di approdarvi.

Fu il primo impatto con la guerra.

La Grecia

Io ed altri alpini aspettammo al campo “E” di Durazzo per circa 20 giorni l’arrivo delle salmerie, poi partimmo prima per Tirana, per Elbassan ed infine perGramshi.

Raggiungemmo la zona del “settore dei Devoli”, già occupata dal ripiegamento dei reparti del Btg. Tirano e Morbegno.

L’ordine era di arginare l’avanzata greca sul monte “Gori Topi”, una delle cime più insidiose del fronte albanese.

La prima Compagnia che ebbe l’ordine  di attaccare fu la 44° C. del Btg. Morbegno, che purtroppo ebbe forti perdite.

Fortunatamente alla mia Compagnia (49°), non fu ordinato di attaccare le opposizioni greche.

Di quei terribili giorni ricordo un Cappellano che confessava sotto un pino e distribuiva la comunione a chi volesse riceverla.

Il comandante Ten. Alessandria, che aveva sostituito il Cap. Marchi, trattenne me ed altri per portare tutte le notti i viveri in prima linea.

Ogni notte arrivando nei rifugi costruiti sotto la neve del “Gori Topi” cercavo di parlare con un mio compaesano, Luigi Giumelli (classe 1915) al quale  ero molto legato.

In aprile il “Gori Topi” fu abbandonato dai greci e le nostre truppe tornarono a Coriza e poi a Libras in una grande boscaglia dove sostammo per una quarantina di giorni prima del rientro in Italia il 29 giugno 1941.

Furono giorni di paura quelli del rientro perché avanti a noi una nave con in carico il Btg. Gemona della Julia fu affondata da un siluro inglese; una beffa dopo gli eroici giorni vissuti in prima linea.

Giungemmo a Bari dove fummo accantonati per circa 15 giorni nella zona del policlinico dove arrivò il Duce che premiò (se così si può dire) ognuno di noi con 5 Lire.

Il giorno dopo fummo trasferiti prima a Varallo di Sesia (NO), poi a Pinerolo dove ricevetti la prima licenza dopo oltre l6 mesi di “naja”.

Rientrai a Sala Bertano, il Btg. fu poi trasferito a Rivoli Torinese, dove cominciarono a giungere voci sulla possibilità di partire per il fronte russo.

In Russia

Furono mesi di trepidazione fino al 17 luglio 1942, quando giunse l’indesiderata notizia di partire per la Russia.

Una lunga tradotta ci condusse al fronte; i primi effetti della guerra li vedemmo a Varsavia, le donne ebree pulivano i binaci sotto la sorveglianza dei soldati tedeschi, una di queste (che aveva studiato all’Università di Torino) si

avvicinò a noi per scambiare qualche parola, il Tenente le allungò qualche galletta, ma la poveretta fu subito richiamata e picchiata dai militi tedeschi.

Giunti in Ucraina cominciammo a vedere la miseria lasciata dalla guerra; poveri contadini offrivano uova, pollame, tuberi in cambio di sigarette utensili o quel poco che ritenevano di poter scambiare.

Più in la carcasse di armamenti, devastazioni del conflitto tino a Novagorlofka cittadina distrutta dai precedenti combattimenti.

Fummo destinati nella zona dei laghetti dove i russi avevano avuto la meglio sui nostri reparti di Fanteria.

Il C.te del Btg. Tirano, il Magg. Volpati, il  Cap. Giaminola ed altri andarono in esplorazione prima di un eventuale assalto purtroppo furono uccisi e di conseguenza il Btg. Tirano fu risparmiato  dall’assalto; al suo posto attaccò il Btg. Valchiese.

Fummo poi spostati a nord nella zona di Rossosch, sede del Comando d’Armata alpino.

Il comando della Divisione Alpina Tridentina si trovava a Podgornoec  capeggiato dal Gen. Reverberi.

Durante quel periodo fui addetto ai rifornimenti che portavo tutti i giorni da Sagaiewka al Don;  il Btg.  era schierato nella zona di Belogoroje.

II  15 gennaio 1943 arrivò l’ordine di ritirarsi in quanto i russi ci avevano  circondato; il 17, giorno di S. Antonio, iniziò il lungo calvario della ritirata: partimmo da Podgornoe, passammo Opyt, dove incontrammo una piccola resistenza russa, resistenza che divenne molto più agguerrita a Postojalyi; la ritirata proseguì da Skororib, a Malakijewa a Scheijakino dove il 22 gennaio 1943 si consumò una grande battaglia.

Continuammo il cammino passando per Nikitowka e poi giungere a Arnautowo dove fu combattuta un’altra grande battaglia che vide il Btg. Tirano vincere sui Russi; purtroppo durante questo combattimento caddero 11 Ufficiali tra i quali ricordo Peppo Perego, Briolini e Soncelli, e moltissimi Alpini tutti valtellinesi o bergamaschi; una vera e propria tragedia.

Di quei terribili giorni di ritirata ricordo alcuni piccoli ma significativi episodi: un giorno mi chiamò un alpino, era Antonio Turcatti di Grosotto, che mi chiese di aiutarlo a scaricare alcuni morti da una slitta; sotto di loro trovammo

un pezzette di formaggio di grana che con grande gioia dividemmo.

Il Ten. Nicola chiese al Turcatti se poteva averne una scheggia in cambio della propria catenina d’oro; il Turcatti allora prese il suo pezzo di grana e ne offri una  scheggia al Tenente senza però voler niente in cambio, fu un gesto di grande generosità in quelle disastrose condizioni.

Ricordo un altro aneddoto: un giorno io, Cecini Giovanni e Trabucchi Severino di Semogo, adocchiammo un’isba (capanna) sprangata; dall’interno sentimmo alcune voci e così decidemmo di sfondare la porta.

Davanti a noi trovammo due donne ed una quindicina di bambini impauriti, li tranquillizzammo dicendo che non avremmo fatto loro del male, ma accecati dalla fame, perquisimmo tutta la casa per trovare qualche cosa di

commestibile. In un armadio trovammo tre belle pagnotte, le stavamo per divorare quando una donna piangendo ci supplicò di non farlo; allora dividemmo una pagnotta in tre e indicammo di distribuire le due restanti ai bambini prima che qualche altro povero soldato affamato come noi potesse prendersele.

Da Arnautowo, dopo aver raccolto i pochi feriti sopravvissuti, partimmo per Nikolajevka dove già il 6° Alpini era impegnato a combattere per sfondare la resistenza russa.

Noi eravamo in pochi e senza munizioni ed attendemmo il Btg. Edolo lasciato in retroguardia.

Quando giunse attaccammo con impeto, ricordo che il Generale Reverberi salì su un carro e gridò: “Tridentina Avanti”; a quel grido guidò i suoi soldati, sostenuti solo dalla disperazione, all’occupazione di Nikolajevka.

Anche durante questo terribile combattimento subimmo gravi perdite.

Da lì partimmo subito, la notte stessa, in direzione ovest; con alla testa il Btg. Edolo superammo di slancio una piccola resistenza quindi, la sera, arrivammo davanti ad un grosso centro già occupato dai russi.

Il nostro Ten. Calvi contò le munizioni: davvero poche;  fortunatamente arrivò una cicogna tedesca che ci suggerì, di non puntare sulla cittadina ma di aggirarla e servendosi di un fumo segnalatore ci indicò la direzione.

Camminammo tutta la notte e tutto il giorno seguente; ricordo che davanti a me c’era un soldato con la faccia tutta fasciata e due polli sulle spalle che avrei volentieri divorato; durante il cammino non scambiammo neppure una

parola.

Quando dalla coda della colonna giunse l’ordine di fermarsi per una breve sosta, l’Alpino avanti a me si girò e subito dopo mi disse: “Oh, tè se ti Silvio!”; era Giacomo Pasini, un mio vicino di casa e solo in quel momento, dopo tanti

km. trascorsi l’uno dietro l’altro, ci si riconosceva.

Decidemmo quindi di restare uniti per farci coraggio; durante la sosta, durata circa 3-4 ore, Giacomo, si tolse gli scarponi per riposare meglio, ma appena levati, i piedi semicongelati, si gonfiarono a tal punto da non riuscire più ad infilarsi gli scarponi.

Era disperato, non sapeva più cosa fare; con tutta la strada ancora da percorrere, in mezzo alla neve e con le temperature glaciali a cui si doveva resistere, gli scarponi rappresentavano un elemento indispensabile.

Provammo quindi a fasciare i piedi con delle coperte, ma Giacomo in preda al panico disse che non voleva più camminare, poi si rivolse a me e aggiunse: “Vai cerca di salvarti e se hai la grazia di arrivare a casa salutami una sola

persona: mio padre e gli spieghi la mia fine”.

Poco dopo si dovette ripartire e Giacomo vedendoci allontanare con la forza della disperazione si alzò e mi raggiunse.

Durante la ritirata anch’io dovetti togliermi gli scarponi e fui costretto a continuare coi piedi gonfi avvolti nelle coperte.

Prima di uscire completamente dall’accerchiamento Russo, la cosiddetta “sacca”, ricordo che la mia squadra era ormai completamente sfinita.

Disperati cercavamo qualcosa che potesse esserci d’aiuto per continuare il cammino.

Fu così che esausto mi accostai ad una casa, vidi che era abbandonata, allora provai sul retro e trovai un cavallo che docilmente mi si avvicinò.

Io lo accarezzai e vidi che aveva una brutta ferita da granata, ma ciò nonostante non zoppicava.

Approntata una briglia di fortuna, provai a montarlo e in poco tempo raggiunsi gli altri.

I miei compagni, tra i quali ricordo Antonio Famlonga di Arigna, Carmelino Uberti di Cedrasco, Trinca Luigi Tarelin di Grosotto, vedendomi arrivare a cavallo, cominciarono a gridare di gioia.

Decidemmo di montarlo ed attaccarci alla coda; fu così che a turno ci potemmo riposare un poco.

Mai un animale fu tanto provvidenziale, per noi fu come ricevere una grazia insperata.

Il 31 gennaio 1943 riuscimmo così ad uscire dall’accerchiamento russo: eravamo fuori dalla famosa “sacca”.

Lì, trovammo il Gen. Gariboldi (in attesa del figlio Tenente) al quale chiedemmo se sarebbero arrivati degli aiuti; sconsolato ci disse che stavano arrivando solo i primi automezzi per caricare i feriti, cioè 1 camion per reparto.

Ora non eravamo più sotto il fuoco nemico, ma purtroppo la strada del ritorno era ancora molto lunga.

Sempre con il nostro cavallo, diventato per me come un fratello, camminammo così, sino a giungere nei pressi di Gomel; erano gli inizi di marzo del 1943.

Dopo 850 km. di ritirata, finalmente avevamo raggiunto le tradotte che ci avrebbero poi portato alla tanto sospirata casa.

Fu un interminabile calvario che vide tornare in Italia solo 13.500 soldati dei 60.000 partiti.

Baciai il mio cavallo, che con occhi malinconici mi vide partire per un lungo viaggio che terminò il 17 marzo 1943 a Udine.

 

Il ritorno in Italia

Fuori dalla stazione ricordo che c’era una massa imponente di persone che si accalcava per chiedere notizie dei propri cari (in particolare di Alpini della B. A. Julia); quindi per evitare che fossimo visti, tanto eravamo conciati,

fu rotta la cinta della stazione e per quel varco raggiungemmo le baracche alle allestite per il nostro rientro.

Servirono ben 15 giorni di contumacia per riprenderci un po’ dai patimenti e dalle privazioni vissute, sino cioè all’8 aprile 1943, quando potemmo tornare a casa in licenza per 1 mese.

Finita la licenza tornai a Tirano dove fummo di nuovo vestiti e quindi trasferiti da Merano, a Malles, a Gorizia, a Rio di

Pusteria; correva 1’8 settembre 1943.

 

La prigionia

Purtroppo questa data diede inizio ad un nuovo lungo calvario: i civili ci fecero arrestare dai tedeschi che ci portarono a Bressanone e da lì, caricati sui treni sino alla Prussia Orientale; un viaggio lungo 5 giorni stipati sui vagoni, senza servizi, nemmeno per i bisogni personali.

Arrivammo così nel campo di Stablac dove la prima notte dormimmo sulla sabbia bagnata all’interno di una baracca.

Il mattino seguente ci fu un’adunata generale dove chiesero se qualcuno  volesse arruolarsi nell’esercito tedesco; pochi della milizia aderirono, tra questi nemmeno un Alpino.

Accettammo la prigionia, la via del sacrificio e del tormento pur di essere coerenti con la nostra fedeltà alla Patria. Fui mandato a Kunisberg dove finii con l’andare in città a costruire rifugi antiaerei.

Qualche  tempo dopo una notte fui chiamato al corpo di guardia e intimatomi di preparare le mie povere cose fui trasferito in treno al campo di Onestein dove fui rinchiuso nella baracca dei condannati in attesa di processo.

Qui incontrai il Lino di “Mastru” di Posseggia (Teglio) ed uno di Castello  dell’Acqua.

Conobbi qui anche un interprete, Emilio Bonomi di Tresivio, al quale mi raccomandai che mi trovasse da lavorare dai contadini perché non ne potevo più di quella vita di stenti in baracca.

Offrii in cambio del suo interessamento quanto avevo: 5 “papirosche”, 5 sigarette.

Ottenni quanto desideravo ed accompagnato da un milite tedesco con due prigionieri francesi dotati di enormi valigioni colmi di ogni ben di Dio inviati dalla Croce Rossa americana,  andammo alla stazione ferroviaria 4 o 5 chilometri distante dalla stazione ferroviaria.

Per ingraziarmi un poco i francesi mi offrii di portar loro le valigie ma giunto in stazione loro iniziarono una lauta merenda non degnandomi nemmeno d’uno sguardo.

Io, famelico, restai esterrefatto a guardarli; fu a quel punto che il milite  tedesco, con grande generosità da parte sua e stupore dalla mia, mi offrì la sua colazione: due fette di pane nero spalmate con della margarina e disse: -“Prendi italiano la mia colazione che quei brutti francesi non si degnano di darti nulla”.

In treno arrivammo nella zona dei laghi Musuri della Prussia Orientale, vicino alla Lituania, in una cittadina grande come Sondrio dove finii in una  baracca.

Qui incontrai 16 italiani e fummo addetti all’ammasso del grano sotto il vigile controllo di 6 anziani tedeschi con i quali instaurai un amichevole rapporto.

L’umanità di questo comandante anziano, civile, ci permise di racimolare qualche patata e qualche rapa per integrare le nostre scarse razioni; ricordo che talvolta ci portava una testa di mucca con la quale, allungando sistematicamente il brodo, in 17 mangiavamo per alcuni giorni.

Erano dure giornate lavorative, soprattutto quando si doveva scaricare carbone, ma in qualche modo ci si arrangiava.

Di questo periodo voglio citare un fatto che mi capitò: durante il lavoro nell’ammasso del grano, portavo degli zoccoli di legno e poiché durante la ritirata in Russia nell’inverno del 1942/43, rischiai di congelarmi i piedi (specialmente quello destro), questi ultimi con gli zoccoli tendevano a sudare.

Un giorno del mese di luglio del 1944, fui mandato con un anziano tedesco sul tetto per ripararlo con del catrame. Col caldo però, poco dopo, cominciò a staccarmisi la pelle dai piedi in modo che non potei più appoggiarli al suolo. Mi sdraiai quindi, in un angolo del capanno all’ombra di un platano con i piedi al sole.

Il tetto del capanno restava ad un livello più basso dalla strada principale adiacente, e fu così che non ci accorgemmo dell’arrivo di una “camicia bruna”, (volontari per l’ordine della città, composti per la maggior parte da invalidi di guerra).

Quando spuntò sul tetto cominciai a tremare dalla paura e come me anche il vecchio tedesco.

Subito mi assalì come una belva e con la pistola in mano mi chiese perché non lavoravo; io feci vedere i miei piedi e col cuore pieno d’angoscia, pronto a morire dissi: “Questo è il riconoscimento che ricevo per aver combattuto con voi?”

Lui ribattè: “Non è vero, tu sei un traditore!”

Poi continuò chiedendomi dove e con quale divisione avessi combattuto, aggiungendo che se non avessi risposto mi avrebbe ucciso subito.

Io risposi di aver combattuto per la Divisione Alpina Tridentina, nel 5° Reggimento Alpini, Battaglione Tirano e continuai elencando le città attraversate, da Novroloska a Podgornoe, da Sagaiewka al Don, da Opyt a Postojalyi a

Nikolajevka.

Sentite queste parole improvvisamente la camicia bruna, si calmò, si rimise in tasca la pistola, mi disse di tornare a riposare e che sarebbe tornato fra un’ora.

Dopo circa un’ora, infatti, tornò con un fagotto sotto il braccio; con sé aveva delle pezze bianche, un kg. di borotalco ed un paio di suoi vecchi stivali militari.

Aveva portato quella roba per me, per curarmi i piedi; io guardai quegli stivali con occhi pieni di lacrime, pensando a quanto li avessi desiderati.

Mentre mi diede quelle cose mi confidò che anche lui fu ferito aNikolajevka, che in passato fu autista di un semovente (carro) e che restato senza benzina fu salvato dagli Alpini italiani.

Col trascorrere dei giorni a lavorare all’ammasso del grano, cresceva sempre più nell’aria la sensazione che presto sarebbero arrivati i russi, tanto che fummo impiegati anche per scavare camminamenti e opere di difesa.

Nonostante questo fu un duro lavoro, io ammonivo i miei compagni che se fossero arrivati i russi potevamo aspettarci di peggio.

Purtroppo, le previsioni fatte si dimostrarono esatte ed i russi arrivarono verso la fine del 1944.

Inizialmente si presentò a noi un ufficiale dicendo che presto saremmo tornati a casa, ma poi arrivarono di lì a poco, un ucraino e due siberiani completamente ubriachi; uno dei due mi puntò la pistola alla tempia ma fortunatamente

non sparò.

L’arrivo delle milizie russe causò devastazione ad ogni paese e violenze ed efferatezze d’ogni genere sulle donne; essi raggrupparono i prigionieri per condurci in un altro campo di concentramento più arretrato.

Qui incontrai prigionieri d’ogni nazionalità: noi italiani fummo i più malvisti e perseguitati.

Ricordo, che l’unica nostra piccola soddisfazione la provammo quando un bolognese stese a terra un russo in un incontro di boxe.

Successivamente fummo di nuovo trasferiti in una località sempre più ad est rispetto all’Europa occidentale; 600 italiani fummo adibiti alla custodia di 30000 cavalli sotto la quotidiana minaccia di essere trasferiti in Siberia; un’eventualità alla quale avrei preferito morire.

Il comandante russo, acceso antistaliniano, mi interrogò parecchie volte sulle condizioni di vita italiane e benché reticente, instaurai un rapporto un poco confidenziale che mi permise di scoprire all’interno dell’ufficio cartine topografiche ed alcune bussole che riuscii rapidamente ad avere.

Saputa approssimativamente la nostra posizione geografica, maturò il proposito della fuga che contò ben presto numerose adesioni.

Tuttavia al momento decisivo solo io ed Emilio De Conti di Azzano (PN) tentammo l’avventura, consapevoli di correre un rischio mortale.

La notte del 10 giugno 1945, presi due cavalli partimmo.

Dopo due giorni di viaggio, una sera, fummo fermati da un drappello di russi ubriachi che dopo ripetute minacce di morte, ci rinchiuse in una vecchia stalla.

Il mattino seguente, i nostri carcerieri sembravano più concilianti ma la sera li vedemmo di nuovo ubriachi fradici che ripetevano le loro insolenti minacce prima di sprofondare nel sonno.

Approfittammo della situazione quindi, per rimpadronirci dei nostri cavalli e ripartire in un frenetico galoppo durante una chiara notte foriera di una nuova libertà.

Dopo parecchi giorni di viaggio, senza nutrizione, se non una pappina ottenuta spremendo dei germogli di segale, giungemmo in Polonia in prossimità di un paesino ai piedi di una collina.

Dopo attente osservazioni decidemmo di inoltrarci nel paese, dove però trovammo tutte le porte delle case sbarrate. Dopo aver ripetutamente battuto sull’uscio di una di queste case, apparve un uomo impaurito che dopo aver saputo che eravamo dei militi italiani aprì la porta per farci entrare.

Provati dal lungo digiuno, vuotammo d’un fiato una ciotola di zuppa di verza che il contadino ci offrì, dopodiché ci chiese cosa volessimo fare.

Noi insieme rispondemmo: “Vogliamo tornare a casa”.

Loro risposero che ciò non era possibile in quel momento poiché tutto era fermo, sia treni che qualsiasi altro mezzo, e che quindi dovevamo aspettare del tempo.

Ci fu offerto un alloggio e 250 Sloti (moneta polacca) ciascuno in cambio dei nostri cavalli; ci trattenemmo così per oltre due mesi in quel paesino.

La famiglia che ci ospitò era composta da una signora anziana (la nonna), la propria nipote ed il marito di quest’ultima.

Tutti in paese furono informati della nostra presenza, nonostante ciò nessuno volle denunciarci ai commissari bolscevichi.

Noi trascorrevamo le giornate aiutando i padroni di casa nel lavoro dei  campi.

Durante questo soggiorno fummo muniti di un cartellino rosa che ci permetteva di viaggiare lungo tutta la rete ferroviaria polacca; le linee arrivavano fino a Berlino.

Appena avuto questo tesserino, convinti di riuscire di giungere sotto il comando degli americani decidemmo di partire per Berlino.

Prima di partire, in segno di riconoscenza verso coloro che ci ospitarono senza denunciarci alle autorità nemiche, chiesi cosa potessi fare per loro se Dio mi concedesse la grazia di tornare a casa.

La nonna mi rispose: “mandaci una cassa di arance”.

Partimmo così verso quella Berlino per noi simbolo di libertà e dopo un viaggio carico di tensioni e paure, nascosti dentro un vagone merci, approdammo l’indomani in una cittadina devastata dalle furie della  guerra ma già in fase di ricostruzione.

Purtroppo i nostri propositi non erano esatti, in quanto per arrivare “in mano” agli americani ci consigliarono di spo-starci in Baviera; fu così che partimmo, via treno, per Lipsia.

Arrivammo quindi, alla famosa “cortina di ferro”: da una parte i russi, dall’altra gli americani.

Due slavi, incontrati in un sottopasso, ci dissero che attendevano da 10 giorni l’occasione per poter passare dall’altra parte, ma le sentinelle russe spietatamente impedivano a raffiche di mitra, ogni tentativo di oltrepassare la cortina. Fortunatamente riuscimmo, tramite un ragazzino, a sapere che ogni giorno, durante il primo pomeriggio, passava una tradotta di prigionieri italiani  che rientravano in patria; decidemmo quindi di aspettare quel treno.

Arrivò quel treno colmo di prigionieri italiani e subito tentammo di salire ma un colonnello italiano ci respinse: dovevamo chiedere l’autorizzazione per salire ai russi.

Noi consapevoli che ciò significasse tornare nei loro campi di concentramento, continuammo ad insistere senza però alcun successo.

Sbirciando nel vagone vidi un Maggiore del 2° Alt. da Montagna del gruppo Bergamo con il fregio del Fronte russo sul cappello.

Fu a lui allora che con le lacrime agli occhi, disperato mi appellai, ricordando le sofferenze ed i patimenti vissuti fianco a fianco su quel fronte e se fratellanza ed umanità fossero ancora presenti in lui, questo era il momento di dimostrarlo.

Furono momenti di grande pena, il Maggiore consapevole dell’impossibilità di farci salire, ci consigliò di aggirare i vagoni e salire furtivamente dall’altro lato.

Terrorizzati d’essere scoperti dagli spietati aguzzini russi, salimmo sul freno presente tra i due vagoni in compagnia di un ferroviere tedesco che, inizialmente, tememmo potesse farci scoprire.

Poco dopo però, scoprimmo che anche quest’ultimo era un milite tedesco travestitosi per sfuggire alle milizie russe.

Il sapore della libertà

Quando la locomotiva con l’ufficiale russo si staccò dai vagoni per tornare indietro e fummo agganciati da un locomotore in mano ad un ufficiale americano, provammo un brivido di libertà.

Fummo portati ad una cinquantina di km. di distanza dalla “cortina di ferro”, dove finalmente ricevemmo una razione alimentare.

Ricordo positivamente gli americani, perché ci liberarono, pulirono e sfamarono, penso che proverò per sempre nei loro confronti un’immensa gratitudine.

Raggiungemmo successivamente l’Austria e dopo una breve sosta rientrammo in Italia, precisamente a Pescantina dove fummo accolti dai preti dell’Opera Pontificia.

Fu qui che rivisto l’ufficiale dell’Artiglieria, volli ringraziarlo per quanto ci suggerì; lui da parte sua, seppe dimostrarmi nuovamente la sua generosità offrendomi parte della sua minestra contenuta nella gavetta e destinata ai pochi fortunati giunti per primi alla mensa.

Presi il treno per Milano quindi quello diretto a Sondrio; tornai il 14 settembre 1945.

Alle nove di sera giunsi a S. Giacomo di Teglio da mio fratello e dopo un paio d’ore tornai da mia madre.

Fui imprudente perché sapendola sofferente di cuore avrei dovuto avvisarla del mio rientro, ma il desiderio di riabbracciarla fu così forte che in piena notte fui sotto casa a chiamarla.

La poveretta col cuore in gola per la gioia di rivedermi restò un’ora come  paralizzata dall’intensa emozione; ci vollero alcuni giorni per farla riprendere.

Il mio calvario di guerra era incredibilmente finito, purtroppo ora subivo le conseguenze di quei terribili anni, tanto che la notte avevo gli incubi causati dalle atrocità viste e vissute; una lunga convalescenza mi permise piano piano

un recupero fisico e psicologico.

I ricordi di questa incredibile esperienza sono sempre vivi e scolpiti nella mia mente ed è per questo che nel 1982, dopo aver scritto numerose volte senza alcuna risposta, mi misi in contatto con il consolato polacco a Milano  per poter rivedere quelle persone che tempo fa mi offrirono ospitalità salvandomi la vita.

Purtroppo, non ricordando perfettamente il nome del paese, sembrò tutto troppo difficile, quando, un’impiegata (del consolato polacco) mi suggerì di contattare un prete polacco di un paese del quale ricordassi il nome.

Così feci e grazie a questo parroco, che dovette fare più di 120 km. per trovare il posto esatto, rintracciai questa famiglia.

La nonna morì parecchi anni fa, così purtroppo anche il marito della nipote, la quale era l’unica superstite.

Dopo vari contatti tramite lettera, nel 1985 riuscii a fare venire a casa mia la nipote col figlio e li ospitai per circa un mese.

Fui molto contento della loro visita, fu un modo per dimostrare la mia gratitudine.

Questa è la vicenda vissuta da Bresesti Silvio, un Alpino della 49° Compagnia, Battaglion Tirano, 5° Reggimento Alpini, Divisione Alpina  Tridentina.

Viva la pace, non la guerra.

 

Alpino Bresesti Silvio

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