UN ALTRO ALPINO CADUTO IN AFGHANISTAN
Un altro alpino della Julia caduto in Afghanistan (Era già socio ANA impegnato nel progetto giovani e nella diffusione della cultura e dello spirito alpino nelle scuole.)
Era in forza al 7° reggimento alpini a Belluno il caporal maggiore Matteo Miotto, ventiquattrenne di Thiene, socio ANA impegnato nel progetto giovani e nella diffusione della cultura e dello spirito alpino nelle scuole con la Sezione di Vicenza.
Miotto si trovava in Afghanistan da luglio. Assieme agli uomini del suo reparto e a una componente del genio era impiegato nella Task Force South East, la task Force italiana che dal primo settembre ha iniziato ad operare nell’area al confine con l’Helmand.
Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha riferito che il soldato “era di guardia a una torretta della base italiana a sud della zona sotto controllo italiano, quando un colpo di fucile sparato da lontano da un cecchino lo ha colpito a un fianco, proprio in una parte del corpo non protetta”.
Matteo era un ragazzo solare, innamorato del suo lavoro e degli alpini. La sua ultima mail inviata il 23 dicembre a Cesare Lavizzari, con il quale era in contatto da tempo, non ha bisogno di commenti e mostra quale fosse lo spirito di Matteo e cosa avesse realmente nel cuore:
“Ti porto i miei più cari auguri da questo posto dimenticato… porta i miei auguri al presidente Perona, digli che ci sono alpini che non si dimenticano dei nostri veci anche in prima linea… qui sembra più di avvicinarsi al ferragosto che al natale ma ci si sforza per immaginare le nostre valli imbiancate, le luci,la vigilia e mille altri momenti unici che regala questa nostra festa. Auguri Cesare ,sarà un 2011 pieno di iniziative e progetti e non vedo l’ora di cominciare, buon Natale- Matteo”.
Caro Matteo gli alpini non ti dimenticheranno mai e porteranno a termine anche per te i programmi che ti eri prefisso. Ci uniamo al dolore che ha colpito il 7°, e tutti gli Alpini d’Italia.
Riportiamo di seguito una bella lettera che Matteo aveva scritto nella triste occasione dei recenti quattro Caduti del novembre scorso:
«Nonno ti sei sbagliato, la guerra l’ho vista anch’io»
Voglio ringraziare a nome mio, ma soprattutto a nome di tutti noi militari in missione, chi ci vuole ascoltare e non ci degna del suo pensiero solo in tristi occasioni come quando il tricolore avvolge quattro alpini morti facendo il loro dovere.
Corrono giorni in cui identità e valori sembrano superati, soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa siamo, da dove veniamo, a cosa apparteniamo…
Questi popoli di terre sventurate, dove spadroneggia la corruzione, dove a comandare non sono solo i governanti ma anche ancora i capi clan, questi popoli hanno saputo conservare le loro radici dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case: invano. L’essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora riesci a capire che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi.
Come ogni giorno partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai nostri mezzi Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni della croce… Nel mezzo blindo, all’interno, non una parola. Solo la radio che ci aggiorna su possibili insurgents avvistati, su possibili zone per imboscate, nient’altro nell’aria… Consapevoli che il suolo afghano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplodere al passaggio delle sei tonnellate del nostro Lince.
Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l’ultimo, ma non ci pensi. La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo, finalmente siamo alle porte del villaggio…
Veniamo accolti dai bambini che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai sappiamo cosa vogliono: hanno fame…
Li guardi: sono scalzi, con addosso qualche straccio che a occhio ha già vestito più di qualche fratello o sorella… Dei loro padri e delle loro madri neanche l’ombra, il villaggio, il nostro villaggio, è un via vai di bambini che hanno tutta l’aria di non essere li per giocare…
Non sono li a caso, hanno quattro, cinque anni, i più grandi massimo dieci e con loro un mucchio di sterpaglie. Poi guardi bene, sotto le sterpaglie c’è un asinello, stracarico, porta con sé il raccolto, stanno lavorando… e i fratelli maggiori , si intenda non più che quattordicenni, con un gregge che lascia sbigottiti anche i nostri alpini sardi, gente che di capre e pecore ne sa qualcosa…
Dietro le finestre delle capanne di fango e fieno un adulto ci guarda, dalla barba gli daresti sessanta settanta anni poi scopri che ne ha massimo trenta… Delle donne neanche l’ombra, quelle poche che tardano a rientrare al nostro arrivo al villaggio indossano il burqa integrale: ci saranno quaranta gradi all’ombra…
Quel poco che abbiamo con noi lo lasciamo qui. Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie tasche e il mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a noi… Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati…
Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra: “brutta cosa bocia, beato ti che non te la vedarè mai…” Ed eccomi qua, valle del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo con la penna che per noi alpini è sacro. Se potessi ascoltarmi, ti direi “visto ,nonno, che te te si sbaià…”
Caporal Maggiore Matteo Miotto – 7° Alpini
Thiene (Vicenza) – Valle del Gulistan, novembre 2010